lunedì 27 ottobre 2014

Yoga, perchè? (per te Insopportabile)
























A richiesta di Insopportabile Blogu, che una cosa o due a proposito di blogging la sa, scrivo questo post. In tre parole: Per Vivere Meglio. Questo è yoga, una scienza millenaria che viene dall'India, che ha lo scopo di farci vivere in salute, di corpo e di mente, in armonia con il mondo e con gli altri. Ashtanga yoga vuol dire 'lo yoga degli otto arti', ashtau in sanscrito significa otto, anga significa arti. Non vuol dire che hai bisogno di otto tra gambe e braccia per fare le sequenze, anche se a volte sembrerebbe così, ma che si basa su otto principi, quattro inferiori, alla portata di tutti, e quattro superiori, che vengono raggiunti e sviluppati attraverso la pratica dei quattro arti inferiori. In una classe di yoga si praticano due degli arti inferiori: Asana, le posture che andiamo di volta in volta ad assumere con il corpo, e Pranayama, il controllo del respiro. Chi si accosta per la prima volta allo yoga in Occidente, tipicamente lo fa da un punto di vista fisico. Magari sono stufo della palestra e cerco un'attività diversa, ho sentito che al mio amico ha fatto passare il mal di schiena, la mia amica è dimagrita senza fare dieta, semplice curiosità dopo aver letto questo post. La costante è che chi si avvicina allo yoga lo fa perchè cerca qualcosa che non trova in quello che ha fatto fino a quel momento. Entro nella mia prima classe e dopo i primi dieci minuti mi rendo conto che non ha nulla a che vedere con lo stare seduti a gambe incrociate con gli occhi chiusi, se sopravvivo fino alla fine dico 'non è assolutamente quello che credevo!' Se mi piace e torno, mi rendo conto poco per volta che con la pratica degli asana il corpo cambia, diventa più forte, più flessibile, attraverso il calore intenso e il sudore elimino tossine e mi sento meglio, la pelle diventa più luminosa, dormo meglio, dimagrisco anche se comincio a mangiare il doppio di prima. Noto anche una cosa strana, dopo le pratiche, a dispetto dello sforzo pesante, non mi sento stanca e il mio livello generale di energia aumenta. Quando inizio a conoscere la struttura delle sequenze e i movimenti diventano familiari, imparo a controllare il respiro in modo tale che ad ogni atto respiratorio corrisponda un movimento, le posture diventano più semplici, più comode, e allora la pratica diventa più profonda e comincia ad agire sulla mente, costringendola a concentrarsi sul corpo e sul respiro, a stare nel momento, estraniandosi da tutto. Le sequenze assumono a quel punto forma di meditazione in movimento in cui il respiro fa da collegamento tra corpo fisico e corpo immateriale. Dopo un po' non mi basta più praticare due volte a settimana dalle 18,00 alle 19,00. Comincio a cercare di praticare quattro volte a settimana, cinque. Per praticare 4 volte a settimana magari devo farlo alle 7,00 del mattino perchè non c'è altro spazio nelle strutture e negli orari degli insegnanti, ma neppure nella mia giornata. Il che vuol dire andare a letto prima, non mangiare o bere troppo la sera prima altrimenti non ce la faccio. Cosa ho più voglia di fare, mojito in Piazza Savoia o pratica? Piano piano abitudini e priorità cambiano e yoga diventa uno stile di vita, non perchè qualcuno o io stesso me lo imponga, ma perchè quel cambiamento mi fa stare meglio, mi appaga di più. In questo senso lo yoga è l'opposto del fitness in cui un istruttore mi da un regime di esercizio fisico e alimentare che io, per quanto motivato a tornare in forma, sento come una costrizione, un sacrificio a cui mi devo sottomettere per raggiungere l'obiettivo. E anche quando l'avrò raggiunto, probabilmente sarà sempre una lotta tra quello che devo fare per rimanere in forma e quello che vorrei invece fare per sentirmi bene, per essere felice. Nello yoga è l'opposto, i cambiamenti, sia fisici che di abitudini, avvengono naturalmente, in conseguenza della pratica di asana e pranayama. E una volta attuati sono duraturi perchè non li vivo come un disagio, ma come fonte di gioia, a tutti i livelli. Benessere fisico e mentale in cui quello che voglio e quello che faccio sono la stessa cosa. A questo punto probabilmente ho la curiosità di leggere un libro sull'argomento e così scopro dell'esistenza degli altri due arti inferiori, Yama, le regole di condotta che ci rapportano agli altri, (amore e compassione per tutti gli esseri viventi, dire la verità, non approfittarsi degli altri, usare l'energia sessuale per crescere spiritualmente o quantomeno senza far del male agli altri, non essere avidi) e Niyama, regole di comportamento consigliate per una vita sana (pulizia di corpo e mente, non trattenere i sentimenti negativi, imparare a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, fare attenzione a come ci alimentiamo, introspezione, celebrazione della spiritualità in qualunque forma crediamo opportuna). Nessuno mi dirà mai che per cominciare a praticare yoga devo diventare vegetariano, smettere di fumare e di bere, andare a letto presto o abbracciare una religione. Sarò io stesso, quando i cambiamenti saranno maturi, ad attuarli, tutti o in parte. Si parte sempre dal punto in cui si è e si procede, se si vuole procedere, gradualmente. I cambiamenti di vita avvengono come conseguenza di cambiamenti di gusti, idee, priorità, che a loro volta sono stati cambiati dalla pratica fisica di asana e pranayama. Quando ci si avvia sulla strada dei quattro arti inferiori, di conseguenza cominciamo a esercitare i quattro superiori. Arriva allora il controllo dei sensi, Pratyahara. Normalmente sono i sensi che ci guidano, che condizionano le nostre azioni. Ho fame, vedo una torta e diventa la cosa più desiderabile al mondo, se solo riuscissi a mangiarne una fetta, o magari tutta, sarei felice. Mangiare mi soddisfa momentaneamente, ma poi la fame torna uguale a prima. La torta non ha il potere di farmi felice, glielo sto dando io quel potere, togliendolo a me stessa e trasferendolo su quella torta per poi riprendermi quella felicità, mangiandola. E così per tutto: se solo riuscissi ad avere quel lavoro, quella persona, quell'indirizzo, quella macchina, allora si che sarei felice. Siamo dipendenti da questo meccanismo in cui proiettiamo al di fuori un'energia vitale che è la nostra, la trasferiamo sulle cose e poi ce la riprendiamo. Per un po' funziona, ma è faticoso, non è molto efficiente e soprattutto arriviamo a un punto in cui non basta più. Lo yoga aiuta a spezzare questo meccanismo e ci insegna a raccogliere e tenere dentro l'energia. In questo senso ci libera, ci rende indipendenti. Non vuol dire che non sentirò più fame, ma che mangerò solo quando sarà necessario. Non vuole neppure dire che non sarò più capace di godermi la torta, solo che il mio star bene non dipenderà dal mangiarla o meno. Il sesto arto è la concentrazione, Dharana. Una volta che il corpo è stato temprato dagli asana, purificato dal respiro e i sensi sono sotto il controllo della mente e al suo servizio, arriva la capacità di dirigere tutte le nostre energie al compimento di uno scopo. Il settimo e l'ottavo arto sono Dhyana la meditazione sul divino, e Samadhi, l'unione con esso, in cui svaniscono il concetto di 'io e mio' e rimane solo coscienza, verità e gioia infinita. Unione è uno dei significati più profondi dello yoga: di mente e corpo, di persone, di stili.  Il cammino è lungo e non è detto che riusciremo a percorrerlo tutto in questa vita, (si dice che chi si avvicini allo yoga è perchè l'abbia già praticato in una vita precedente), ma anche pochi passi ci porteranno dei benefici. E chi si ferma al 'pratico perchè mi fa bene alla schiena' va benissimo lo stesso. Una delle prime cose che ho imparato da Roberto Bocchi è che non ha senso fare paragoni o confronti, lo yoga è una disciplina che distrugge l'ego, non importa dove arrivi, ci sarà sempre qualcuno più avanti di te, ma non per questo la tua pratica sarà meno valida.

venerdì 24 ottobre 2014

Sadhaka





















Dopo quella prima volta sono tornata... due, tre, alla quarta in una settimana la segretaria mi fece notare che visto che ero sempre lì mi sarebbe convenuto fare un pacchetto da dieci ingressi così ne avrei avuti almeno due in omaggio. La famiglia mi ha vista molto poco in quell'estate. 'Bridge to peak' - 'Peak to Power', frequentavo tutte le classi di yoga vinyasa e come una spugna assorbivo tutto ciò che in quelle settimane Lalit mi insegnava. Quando non faceva la prima serie di ashtanga teneva classi a tema, proponendo sequenze in cui di volta in volta andavamo a lavorare sull'apertura delle spalle, la forza, gli equilibri sulle braccia, le posizioni invertite. I fine settimana facevamo sequenze più lunghe, lente ma più intense, sull'apertura del bacino e i piegamenti della colonna all'indietro. Mattoncini e cinghie facevano parte degli strumenti di lavoro, come nel metodo Iyengar e grazie a questi supporti le classi imparavano rapidamente, la pratica scorreva veloce, le posture venivano conquistate rapidamente e relativamente senza sforzo. Era come se Lalit riuscisse a trasmettere la sua fluidità di movimento nell'insegnamento e io imparavo con la stessa facilità. Il suo metodo, ashtanga ma con allineamenti di Iyengar, calzava perfettamente quello che fino a quel momento era stato il mio percorso, in cui avevo usato i seminari di Iyengar come 'ripetizioni' per progredire nelle sequenze di vinyasa. Quasi senza accorgrermente, mi trovai a fare delle posizioni di equilibrio sulle braccia della terza serie di ashtanga, come se mente e corpo fossero stati pronti da un po' ma stessero aspettando il comando giusto. Spesso, negli intervalli tra una classe e l'altra scorgevo la coda delle sessioni di formazione dei nuovi insegnanti e le pratiche personali degli insegnanti già formati, vedevo con che attenzione e integrità Lalit curasse la loro preparazione. Non si fermava mai, le sue giornate lavorative erano di dodici ore. Un giorno, entrando tre le prime a stendere il tappetino per prendere posto nella shala, lo trovai che spazzava il pavimento. Alzò gli occhi e mi sorrise, 'è un lavoro che mi piace, tiene a bada l'ego.' Gli chiesi se gli sarebbe piaciuto venire in Sardegna per fare un seminario. Mi rispose subito di si, così ci scambiammo gli indirizzi email e ci ripromettemmo di rimanere in contatto. Alla fine di quell'estate mi lasciò con due posture su cui lavorare: Bakasana, uno dei primi equilibri sulle braccia che ancora mi sfuggiva nonostante fossi riuscita a conquistarne altri in teoria più complicati, e Sirsasana, la mia vecchia amica sulla testa. Lalit mi mostrò come andare avanti in entrambe, con pazienza e costanza, senza fretta e molta pratica. Capivo che non c'erano scorciatoie e che la strada per arrivare a sentirle comode era lunga, ma grazie agli spunti che lui mi aveva dato finalmente vedevo il cammino, adesso dovevo solo percorrerlo. Tornata a casa, molto presto decisi di voler continuare a studiare con lui e andai online sul sito di Himalaya Yoga Valley per iscrivermi al loro corso di formazione insegnanti e prendere così il RYS 200, la certificazione internazionale di Yoga Alliance. Non fu una grande sorpresa vedere che non c'erano più posti disponibili per le successive due o tre sessioni. Decisi comunque di compilare la mia domanda di ammissione e aspettare il prossimo spazio a disposizione, quasi un anno dopo. Chiedevano quanti anni di pratica avessi alle spalle, se fossi pronta ad impegnarmi per un mese intero, 12 ore al giorno, precisando che se la mia motivazione non fosse stata abbastanza forte avrei fatto meglio a desistere visto che l'impegno fisico ed emotivo sarebbe stato molto intenso. Chiedevano se avessi mai studiato anatomia o filosofia dello yoga, se avessi già completato altri corsi di formazione insegnanti e se stessi già insegnando. Credo di avere qualche gene teutonico in me, se mi fanno domande dirette, do risposte dirette, non mi saltò neanche in mente di abbellire ma neppure di omettere quello che fino a quel momento era stato il mio percorso. Una settimana più tardi mi giunse la risposta di Himalaya Yoga Valley, si complimentavano per i risultati che avevo raggiunto, ma si vedevano costretti a rifiutare la mia richiesta e mi consigliavano di cercare un'altra scuola più adatta alle mie esigenze. Non potevo crederci. Sapevo che i bravi insegnanti non vanno a cercare discepoli, e anche che un 'sadhaka', 'colui che cerca','l'aspirante', deve impegnarsi per essere accettato da un maestro, ma non ero preparata al rifiuto. Immediatamente risposi alla mail, dicendo che avevo già praticato con Lalit ed ero alla ricerca di un'esperienza di quell'intensità, oltre che della certificazione internazionale. Li pregai per favore di riconsiderare la mia richiesta. Passò qualche giorno e arrivò la risposta, avevano riesaminato la decisione e mi offrivano un posto nel programma. Da allora diversi mesi sono passati, Lalit è venuto in Italia, io sono tornata in Irlanda, abbiamo avuto occasione di conoscerci meglio. Appena il livello di confidenza me l'ha permesso gli ho detto, 'Tu non mi volevi!'
'Secondo te perchè?'
'L'unico motivo a cui riesco a pensare è che ho già l'impronta di un altro.'
'Esatto, è molto più difficile demolire e ricostruire piuttosto che costruire da zero.' Ha poi però aggiunto, 'ma quando mi hanno fatto vedere la domanda e ho capito che fossi tu, sono stato io a dire di prenderti.'
Tante volte ho avuto la tentazione di chiedergli cosa pensasse della mia pratica, di chiedergli se sarà il caso di costruire su quello che già so o se mi verrà chiesto di distruggere e ricostruire, ma ho sempre desistito. Non si fanno mai domande, si aspetta che ti venga detto. Raramente ha detto 'brava, ben fatto,' mai ha criticato qualcosa che so già fare e sempre mi ha indicato la strada per andare oltre. Dopo ogni periodo di studio mi ha lasciato una o due nuove posture su cui lavorare, poco per volta aumentando il numero di carte nel mazzo della mia pratica personale. Quel giorno credo di aver avuto una risposta. Tra poco lo saprò per certo.

lunedì 20 ottobre 2014

99% Practice



















La prima volta che entrai nella shala di Himalaya Yoga Valley a Cork rimasi colpita dal senso di pace che la semplicità del posto emanava. Muri rustici dipinti di bianco su pavimento in legno irregolare, qualche nicchia per conservare i tappetini e sulla parete di fondo, incorniciati dalle grandi finestre, due ritratti in gigantografia di Tirumalai Krishnamacharya, il maestro dei maestri, e un altro guru di cui non conoscevo ancora il viso ma di cui sicuramente avevo già sentito il nome, Swami Rama dell'Himalaya. I praticanti entravano soli o a piccoli gruppi. Dopo aver steso il tappetino si sdraiavano supini e allineati nella posizione di rilassamento, chiudevano gli occhi e si concentravano sul respiro. I pochi che scambiavano due parole lo facevano sottovoce per non disturbare. Anch'io feci come gli altri, posizionando il mio tappetino vicino al muro, circa a metà sala, scegliendo una posizione il più anonima possibile per cercare di sparire in mezzo alla folla di yogi sconosciuti. La mia era impresa difficile, visto che in piena estate venivo direttamente dalla Sardegna e la mia abbronzatura stonava come una voglia scura sulla pelle irlandese.
Lalit si affaccendava ad allineare tappetini e far spazio per gli ultimi arrivati. Dirigeva il traffico in maniera cortese ma perentoria, senza lasciar spazio a discussioni su posti preferiti o spazi personali. I tappetini venivano posizionati a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro, lo spazio di ciascuno definito dal rettangolo colorato di gomma sul quale per la successiva ora e mezzo si sarebbe allungato e annodato. Precisamente all'ora d'inizio, Lalit si mise di fronte alla stanza piena, 'Questa non è una classe principianti,' sorriso sulle labbra e grazioso dondolamento del capo. 'Se ci sono dei principiati si spostino cortesemente nella sala accanto dove si tiene la loro lezione.'  Mi chiesi se non avessi fatto meglio a fare una scelta un po' meno ambiziosa di una prima serie di ashtanga come prima pratica. Nessuno si mosse. 'Uniamo le mani a preghiera davanti al petto e recitiamo il mantra.' Partì il primo OM della classe, un po' timido e tentennante nel fare da eco a quello di Lalit. Il secondo risuonò più deciso, più convinto, al terzo, ormai forte e sicuro, si unì anche la mia voce. Mi preparavo e recitare il primo verso del 'Vande Gurunam', il mantra che sempre avevo associato all'ashtanga e che stavo ancora faticosamente memorizzando riga per riga, ma la mia sorpresa fu grande quando una nuova melodia riempì la shala. Parole mai sentite prima, alla musica delle quali, passato il primo momento di stupore, mi abbandonai. Non sapevo cosa stessi recitando, ma la mie corde vocali vibravano di quei suoni in sanscrito e ancora una volta la mia voce si univa a quella della classe.  Il mantra terminò con Shanti Shanti Shanti, almeno il significato di questa parola lo conoscevo, pace. Cominciammo a praticare. Cinque Saluti al Sole A, cinque Saluti al Sole B, mi muovevo leggera al suono dei comandi e al ritmo del mio respiro, i dieci saluti al sole di riscaldamento scivolarono via e non mi sentii più tanto fuori dal mio mondo. La prima regola in una classe di yoga è quella di lasciare fuori l'ego, prestare attenzione solo alla propria pratica senza guardare in giro e soprattutto senza paragonarsi con gli altri. Ogni postura richiede che lo sguardo vada a concentrarsi su dei punti stabiliti, le mani, il naso, l'ombelico, anche volendo, non c'è proprio spazio per vedere cosa faccia il vicino. Quella volta peccai molto. A mia discolpa, ero entrata per la prima volta in una classe di più di trenta persone, preoccupata di non essere all'altezza, con la paura di essermi spinta oltre il mio limite in un territorio al quale, venendo dal power yoga (derivato dall'ashtanga ma modificato per l'Occidente), avevo paura di non appartenere. Cominciammo la sequenza in piedi. Lalit girava tra i praticanti aggiustando un cane a faccia in giù, allineando un triangolo, accompagnando una torsione. Si spostava veloce e con grazia tra uno e l'altro, occasionalmente dimostrando come chiudere una postura. Quello che mi colpiva era la sua estrema leggerezza e facilità di movimento, tutto sembrava venirgli semplice, senza alcuno sforzo. Per quanto mi riguardava, sembravo aver soddisfatto la mia necessità di invisibilità, Lalit mi passava accanto senza mai alzare lo sguardo, appariva non vedermi. Arrivati a Prasarita Padottanasana C, mi resi conto con stupore che solo la mia testa toccava per terra, tutte quelle che il mio campo visivo abbracciava da quella posizione capovolta, erano a mezz'aria. Mentre stavo lì a testa in giù a chiedermi come mai, un buco nella mia cortina di invisibilità, sentii che Lalit mi prese le mani. Sapevo cosa mi stesse chiedendo. Mi concentrai sulla punta del naso, sul respiro lungo e profondo e mi affidai completamente alle sue mani. Al terzo respiro sentii le mie mani che toccavano terra. Per altri due respiri, infinitamente lunghi, scanditi dal suo conteggio, mi abbandonai alla postura, poi lentamente, guidata da lui, tornai in posizione eretta. Non feci in tempo a dire grazie che lui era già passato a un altro e la sequenza andò avanti. Finimmo le posizioni in piedi e passammo alla parte a terra, Paschimottanasana A, e di nuovo una mano sulla schiena, con una pressione dolce ma decisa mi portò a incollare il petto alle gambe. Mezzi loti, allungamenti, torsioni, ci fermammo a Navasana prima di iniziare la sequenza di chiusura. Arrivati a Sirsasana, il re delle posture, la prima delle posizioni sulla testa, cominciai a sentirmi a disagio, fuori dalla mia zona comoda. Tutti, nessuno escluso, a modo loro si cimentavano, io esitavo. Era uno di quegli asana che avevo acquisito grazie all'Iyengar, ma ancora non lo sentivo mio e usavo il muro per appoggiarmi. Qualcosa stonava, mi rendevo conto che chi faceva Saluti al Sole puliti e triangoli allineati come i miei, andava anche sicuro sulla testa, con un Sirsasana bello forte e senza supporto. Il mio era da pulcino. Mentre Lalit andava in giro ad aggiustare un allineamento delle gambe o ad aiutare chi volesse azzardare la postura in mezzo alla stanza, a me non si avvicinò neppure, lasciandomi al conforto del muro, il mio punto di riferimento. Finimmo la sequenza con il rilassamento guidato al termine del quale Lalit raccomandò di cambiarci al più presto gli indumenti bagnati, eravamo tutti fradici come usciti dalla doccia. Arrotolammo i tappetini e, facendo attenzione a non scivolare sulla condensa che si era formata sul pavimento, lasciammo la shala. Ero sopravvissuta, avevo praticato la sequenza fino alla fine, cosa ancor più importante avevo praticato fino alla fine respirando nel modo giusto. I miei movimenti erano stati sufficientemente coordinati al respiro da aver tenuto il battito cardiaco ben sotto controllo e l'espressione del viso rilassata. Conoscevo bene i vinyasa, quella sera avevo fatto yoga. Il primo sentimento fu di gratitudine, per Roberto Bocchi  che mi aveva insegnato le basi, per Sabrina Lai nelle cui classi avevo per anni praticato, mentre continuavamo a studiare insieme la disciplina che nel corso di quegli stessi anni Roberto, con rigore e precisione ci trasmetteva, per Steve Testolin che durante le vacanze estive aveva generosamente dedicato a me e ad altri pochi appassionati l'alba alla spiaggia del Poetto, aiutandoci a ripassare e limare, allineare e respirare. Realizzai così che, grazie alla preparazione e serietà di chi mi aveva fino a quel momento formata, in tutto quel tempo impiegato a prendere le certificazioni di power yoga, avevo in realtà sempre studiato sequenze di ashtanga. In una catena in cui io ero l'ultimo anello ma che attraverso Roberto e Lino Miele arrivava fino al grande maestro che ha portato l'ashtanga in Occidente, S.K.P. Jois, avevo imparato le basi, ed erano molto solide. Mi resi anche conto che era arrivato il momento di costruire su quelle basi e che a questo scopo, Lalit mi era piovuto come una benedizione dal cielo pazzo dell'Irlanda.

lunedì 13 ottobre 2014

Stairway to Goa (And my spirit is crying for leaving)



Sembrava una buona idea quando ho deciso otto mesi fa, a poche settimane dalla partenza cominciano i sudori freddi e i risvegli notturni 'Ma chi me l'ha fatto fare? Sicura che fosse proprio necessario?' Ormai è uno schema collaudato, la mia vita va a cicli di circa cinque anni, dopo i quali tutto o larghe fette cambiano o subiscono grandi scosse, ogni tanto apparentemente inutili, anche se poi alla lunga tutto ha un senso, alcune più costruttive. Questa volta la scossa si presenta in forma di un mese in India, da sola (regolare ventata di indipendenza parte delle fisiologiche scosse quinquennali), per prendere un'altra certificazione yoga: da Himalaya Yoga Valley. Scossa decisamente costruttiva stavolta, anche dal punto di vista odierno. E' stato più o meno un anno e mezzo fa quando, entrando per pranzo in uno dei miei posti preferiti a Cork, ho sollevato gli occhi e visto la targa di Himalaya Yoga Valley. Già completato il mio percorso di formazione-insegnanti di power yoga in Italia, mi ero nel tempo sempre più avvicinata all'ashtanga, usando il power come base solida e i seminari di Iyengar come scaletta a pioli quando i muri contro i quali regolarmente mi trovavo a sbattere diventavano troppo alti da superare, o meglio quando la mia impazienza occidentale mi impediva anche solo di vedere un modo per superarli o girarci attorno. Grazie all'Iyengar riuscivo a passare al livello successivo, sbloccavo posture che con le sequenze di vinyasa non ero riuscita ancora a capire, ma che, una volta conquistate grazie alla guida dell'insegnante Iyengar, diventavano mie e potevo tranquillamente inserire nella mia pratica personale. E' stato un cammino a gradoni, imparavo fino ad un certo punto, raggiungevo un plateau e mi fermavo il tempo necessario per assimilare e sedimentare, una volta che fisico e testa avevano assorbito gli insegnamenti, proseguivo verso il livello superiore. Non ci sono tempi definiti, a ciascuno i propri, il progresso al livello successivo è determinato solo dal livello di pratica. Le posture sono come delle porte: fino a che non le apri non puoi passare oltre. La mia scala portava comunque tutta verso la stessa meta: l'ashtanga. 
'Yoga form the Source' recitava la targa. Mi ricordo di essere rimasta perplessa, non capendo la precisazione, ma i nomi delle classi che offrivano, 'bridge to peak' 'peak to power' 'bridge to peak-flow' 'ashtanga primary series', risuonavano decisamente come i passi sui gradini della mia scala. Entrai d'impulso per prenotare un posto nelle classi che mi interessavano. Mi accolse alla reception una signora bionda e a piedi nudi alla quale chiesi più informazioni su corsi e insegnanti. 'Le classi di ashtanga sono tenute tutte dal nostro direttore, Lalit Kumar.' Solo a sentire il nome sono rimpicciolita di qualche centimetro 'Uh, OK... spero di essere in grado di seguire.' Maeve, così poi ho scoperto si chiamasse la signora, mi sorrise dolcemente, 'non preoccuparti, Lalit è capace di insegnare yoga anche a chi è in sedia a rotelle.' E da lì è cominciata la mia storia con Himalaya Yoga Valley e la scala per raggiungere il piano ashtanga ha bruscamente deviato verso Goa e l'India. 
Due mesi fa ho prenotato il volo per Goa tramite Tiziana di Visos Viaggi. Mi ha chiesto se avessi qualche preferenza di itinerario o compagnia aerea, 'una che non cada e che possibilmente passi da aeroporti in cui non posso perdermi.' 'Qatar, da Doha,' è stata la sua risposta immediata. Quando poi la stessa Tiziana mi ha comunicato che per ottenere il visto ci sarebbero volute due settimane, una familiare sensazione di panico si è impossessata di me, retaggio di otto mesi in giro per il mondo in cui il passaporto era il bene più prezioso. 'Non posso separarmi dal passaporto per due settimane.' 
'Perchè? Pensi di dover andare a New York su due piedi?' 
'No'
'E allora? Sei in Italia, se ti sposti puoi usare la carta d'identità...'
'Non mi va di separarmi dal passaporto per due settimane' 
'Ci vuoi andare in India?'
'Si!'
'E allora dammi il passaporto!' Gliel'ho allungato con riluttanza e mi sono pazientemente preparata all'attesa. Oggi finalmente, dopo le due settimane promesse il passaporto è tornato a casa e mi sento di nuovo intera.
Adesso è il momento delle liste sparse per casa, medicine, capi di abbigliamento, sapone da bucato, tappetino da yoga, copie del passaporto (di  nuovo l'ossessione ricorrente!), se ben ricordo continueranno ad aggiungersi articoli fino all'ultimo momento, sicuramente ne lascerò la metà a casa pensando 'ma si dai, basta la carta di credito, non stai mica andando nella giungla!' ... tranne che stavolta sto andando nella giungla! Mandrem Beach, a nord di Goa non ha praticamente niente, un villaggio di pescatori, una spiaggia e la giungla. 
Dopo qualche tentennamento mi sono messa a scrivere sul mio vecchio diario di viaggio. Non entravo da secoli e non mi ricordo neppure bene come funzioni, ma spero di riprendere la mano, sia con le parole che con la tecnologia. L'intenzione è quella di continuare a postare dall'India e documentare questo nuovo percorso... Che mi fa realizzare di aver appena aggiunto un'altra voce alla mia lista, il laptop. Impensabile scrivere dallo smart phone, di nuovo vecchi ricordi si affacciano alla mente, di aggeggi infernali che crollavano sul più bello cancellando tutto ciò che avevamo faticosamente scritto, l'esperienza insegnerà pur qualcosa. Stavolta mi porto il computer, da casa anzi che comprarne uno a metà strada. Ci sarà una connessione nella giungla? Dopo averne trovate sulle Ande, nel deserto cileno e nel 'Bel Niente neozelandese', sono fiduciosa!